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CONNESSIONI DI SGUARDI

15/10/2023

UN SOLO SGUARDO È SEMPRE FALLIMENTARE

di Francesco Cavalli

In questo articolo Francesco Cavalli continua ad accompagnarci in un percorso di condivisione di prassi, in cui illustra quanto da lui esperienziato durante una formazione a 360° sul lavoro in ambito sociale: fra role playing, video testimonianze e talk, ci riporta alcune importanti riflessioni…

Lettura consigliata a: educatori, operatori sociali, psicologi

 

 

USCIAMO DAI CONFINI

Con questo mio primo articolo della seconda stagione, apro con il contributo della dott.ssa Franca Olivetti Manoukian, che ci aiuterà a definire un importante tema: connettere sguardi e approcciare alla complessità nel lavoro sociale.

“La mancanza di Vision organizzativa che porta nei servizi a giustapporsi per professioni, da dove nasce? Certo pesa l’incapacità della politica di riorganizzare i servizi in questi anni. Allo stesso tempo è comprensibile il movimento protettivo dei professionisti, che si sono trovati confrontati con vicende complesse in servizi spesso sguarniti. Come se sistemarsi in orti chiusi fosse sentito più tutelante rispetto al cooperare. È tempo di tornare a investire su un pensiero organizzativo? […] Un’organizzazione non può funzionare come una sommatoria di saperi disciplinari specialistici. L’organizzazione vive e produce quando si fonda su un meta-sapere condiviso, frutto di intrecci non banali di saperi. Forse ci manca un’epistemologia del connettere sguardi e visioni, ipotesi di lavoro e progettualità in cui ogni competenza professionale venga convocata, riconosciuta per il suo apporto, “integrata” in un lavoro comune … l’integrazione nasce dal riconoscere, che non si può pensare, decidere e fare da soli, perfino i magistrati del penale minorile non possono decidere da soli senza tener conto della storia degli adolescenti, dei processi di socializzazione che li hanno condizionati, dei loro attaccamenti, dei loro desideri, delle loro dotazioni soggettive che vanno riconosciute ma per farlo bisogna istituire un setting, un ambiente che metta insieme professionisti non come somma di attività caratterizzate ma come lavoro comune relazionale e riabilitativo …”

Con questo estratto, tratto da un’intervista di Animazione sociale (gruppo Abele Torino, vol. 351), vorrei ci focalizzassimo su tre concetti principali: 

  • i confini che ogni organizzazione traccia per proteggersi rischiando di intossicarsi di autoreferenzialità
  • la mancanza di un metodo scientifico del connettere sguardi e visioni per riconoscere l’altro
  • la complessità dei setting

Spesso si parla di contaminazione, lavoro di gruppo multidisciplinare e coprogettazioni, senza però prendersi cura della complessità che richiede un metodo di lavoro multiprofessionale. In questo modo si rischia di trasformare ciò che dovrebbe essere “metodo e prassi” in un valore scollegato dalla realtà. 

Ecco perché sostengo che valga la pena di immergersi nel tema delle connessioni di sguardi, uscendo da certi confini. Credo sia necessario prendere una posizione e fare una scelta politica sostenuta dall’organizzazione per la quale il professionista lavora: cambiare strategia, uscendo dagli “orti sicuri”. Lavorare connettendo sguardi significa di fatto uscire dal proprio, condividendo oltre il proprio, mettendo a disposizione il proprio bagaglio. 

A tal proposito voglio condividere con voi un’esperienza di connessioni di sguardi, di meticciamento e contaminazione.

 

L’ESPERIENZA

Durante l’estate appena trascorsa, insieme all’équipe di lavoro di Officine21, abbiamo pensato di organizzare un percorso di formazione di due giorni, per gli operatori dell’Area tutela e prevenzione e per gli educatori professionali che lavorano con minori e famiglie in carico ai servizi sociali del territorio e di tutela minori. 

Abbiamo scelto di esplorare il tema della violenza, nello specifico la violenza di genere e violenza assistita. Per farlo siamo usciti dal nostro solito binomio “Tribunale - servizi sociali”. Abbiamo così chiesto la collaborazione di psicoterapeute specializzate sul trauma e l’abuso, di operatrici della casa rifugio della cooperativa sociale Buona Giornata specializzate nell’accoglienza e nella protezione di donne vittime di violenza e di una psicoterapeuta specializzata nei percorsi trattamentali di uomini che hanno agito violenza o autori di reato.

 

 

COME E’ ANDATA?

Durante la prima mattinata abbiamo lavorato con le psicoterapeute dott.ssa Laura Madonini e dott.ssa Giulia Spoldi del Centro Come.Te del Mosaico Servizi, le quali hanno proposto un percorso teorico sul Trauma (definizione - gravità - effetti), passando per:

  • Transfert e controtransfert
  • Violenza e conflittualità
  • Differenze a confronto
  • Funzionamento psicologico della donna vittima di violenza
  • Violenza assistita ed effetti sul minore della violenza assistita
  • Gli effetti sul minore delle separazioni conflittuali

Abbiamo poi terminato questa prima sessione con un role playing guidato dall’ADM (servizio educativo domiciliare per famiglie in carico ai servizi sociali). 

 

UN MONDO “SOTTOSOPRA”

Nel pomeriggio è stato il turno delle operatrici della casa rifugio, che hanno allestito nel salone di Officine21 una sorta di “mondo sottosopra", in cui ci hanno accolto come se fossimo donne che stavano entrando in casa rifugio (sovra esteso femminile per gli uomini presenti in formazione). Abbiamo così avuto la possibilità di sperimentarci nel setting della protezione attraverso un role playing, scena che è rimasta allestita per tutto il tempo della sessione formativa: ci hanno mostrato come accolgono, ci hanno raccontato su quali fondamenta hanno costruito le prassi, parlandoci del loro patto di protezione, de “L'ordine e il disordine" e della valutazione del rischio. Continuando poi sul sistema di protezione, Convenzione di Istanbul e codice rosso. Il programma è stato ricco di altri preziosi scambi; vi riporto alcuni dei punti che hanno guidato la nostra esperienza:

  • “Resistere per esistere” 
  • Relazione di aiuto fra donne sopravvissute alla violenza
  • Ascolto e denuncia
  • Vittimizzazione secondaria
  • La rete degli operatori
  • "Beli! Dicio io quando giochiamo!" 
  • "Facciamo un gioco dove non succede niente?" - Le bambine e i bambini in casa rifugio
  • "Non hanno capito niente!” - Le adolescenze in casa rifugio 
  • "Beh, se fa così un po' se le merita!" - Educazione, cultura e politica 

 

IL TRATTAMENTO

Il giorno successivo abbiamo ascoltato il terzo punto di vista, con l’esperienza della dott.ssa Arianna Borchia, che ci ha raccontato il suo sguardo sugli uomini autori di violenza; nello specifico:

  • Progetto U.O.M.O. e dei percorsi trattamentali dell’uomo violento, autore di reato o autore di violenza. 
  • La dimensione del trattamento dell’uomo violento
  • Principi di legge – il Codice Rosso
  • Genesi del conflitto ed escalation in violenza - la reazione violenta e trigger traumatici
  • Il trattamento tra responsabilità ed empatia 
  • I tipi di violenza

Abbiamo anche ascoltato le persone che hanno agito violenza attraverso testimonianze video e i racconti della dott.ssa Borchia, facendoci strada in un argomento davvero complesso e carico di contraddizioni di sistema, con leggi ancora poco chiare e un’organizzazione del welfare ancora da strutturare. 

L’esperienza del trattamento apre a riflessioni importanti e produce dati sulla recidiva altrettanto interessanti. Percorsi precisi e chiari in cui, allo stesso momento, emerge una dolorosa domanda: quanto ci vorrà ancora per ribaltare il paradigma culturale, politico, scientifico, legislativo per non usare più le case rifugio come unica risposta all’alto rischio? Tutto questo priva la donna vittima di violenza - e spesso anche i suoi figli - di tutto il quotidiano, dal lavoro, allo studio, alla libertà, ai soldi, alla casa, e molto altro.

Proprio durante questo momento di formazione in particolare, però, è giunta la bellissima notizia di una grande novità territoriale e regionale: la stesura di un protocollo tra le scuole del lodigiano che contiene le linee guida che assicurano il diritto allo studio a quegli studenti che si trovano in situazioni di particolare fragilità e fra queste c’è anche la casa rifugio. Il Protocollo sarà al vaglio delle scuole per essere firmato, quindi finalmente attivo e operativo.

 

 

LA CURA DELL’OPERATORE

Dopo il contributo della dott.ssa Arianna Borchia, le terapeute del centro Come.Te hanno continuato con il programma, affrontando il tema della cura dell’operatore. 

Nell’incontro con persone che nella loro vita hanno sperimentato esperienze sfavorevoli infantili e traumi importanti anche in età adulta, è infatti fondamentale che gli operatori abbiano ben presente che il trauma è contagioso, e che le reazioni di controtransfert traumatico sono inevitabili!

Nella relazione con l’altro, noi operatori siamo parte integrante nel qui ed ora e occorre prestare attenzione a diversi livelli:

  • L’agire intenzionale 
  • La consapevolezza di cosa ci accade a livello cognitivo, emozionale e corporeo, venendo a contatto con il dolore e con la sofferenza
  • La nostra comunicazione sia verbale che non verbale: la scelta delle parole, il tono, la prossemica e i gesti sono alcuni degli elementi di cui essere consapevoli
  • Un atteggiamento empatico, non giudicante e compassionevole 
  • Il rispetto dei tempi e del timing dei nostri interventi
  • Avere cura anche di noi stessi in maniera consapevole

 

Quest’ultimo punto è spesso trascurato, ma dovrebbe meritare tempo e spazio in ogni Organizzazione e in ogni ambito professionale della relazione di aiuto. Una self-care strategy è qualsiasi azione intenzionale e consapevole che l’individuo può mettere in atto a tutela e promozione della propria salute fisica, mentale ed emozionale; anche di fronte al rischio connesso alla continua e ripetuta esposizione alla sofferenza e al dolore altrui. 

 

Possono esserci differenti self-care strategies: fisiche, emotive, sociali e professionali. 

La difficoltà a realizzare la propria storia rende il processo di cura molto complesso, poiché la guarigione necessita di una graduale presa di coscienza di quanto è accaduto. E’ necessario per riuscire a tollerare, dare un senso e, successivamente, integrare gli eventi traumatici nella propria storia di vita, senza dover rinunciare a parti di sé o a intere parti della propria vita. L’identità e la stabilità affettiva si nutrono di questa consapevolezza. 

Dunque, la sfida principale dei percorsi di cura è quella di guidare la persona lungo il viaggio della piena realizzazione e integrazione, attraverso un approccio graduale e rispettoso delle paure, delle fobie, delle risorse e delle resistenze individuali. La trasformazione può avvenire solo in un contesto di sicurezza che aiuti la persona traumatizzata a sbloccare le emozioni del passato e a sviluppare energia e risorse per il futuro.

Nell’agire educativo, si ha un vantaggio di setting importantissimo, il “fare intenzionale insieme” pone le basi per la stabilizzazione, una fase fondamentale del modello trifasico di Pierre Janet e di altri modelli presenti in Psicotraumatologia. La stabilizzazione e la regolazione emozionale passa dal “qui ed ora” e può trovare un terreno fertile nella relazione. Prima di aprire vasi di Pandora e rischiare di destabilizzare in maniera considerevole le persone che incontriamo nei Servizi, occorre stare e sperimentare il bello insieme, partendo sempre dall’altro, dai suoi interessi attivando la curiosità. Laddove la condizione di ipoattivazione è più persistente, l’operatore può comunque giocare un ruolo chiave.

Questa formazione ci ha permesso di sperimentare tre diversi setting, siamo stati accompagnati attraverso scenari e “allestimenti” tutti molto differenti tra loro, sempre professionale e scientifici, raccontabili con dati, teorie e metodi ben definiti. L’effetto ricercato in questa esperienza è rimettere in discussione posizionamenti, posture, linguaggi, pensieri e progettualità del lavoro educativo “lineare” a cui siamo abituati. La concretezza di questa esperienza ci ha permesso di uscire dai confini per un attimo e di rientrare un po' cambiati, più riconosciuti e sicuri della complessità.

Della violenza nello specifico abbiamo ancora molto da mettere a fuoco, ma, certi di non poter confinare la nostra operatività in un “angolo”, dobbiamo pensare, agire, decidere insieme anche se gli altri si trovano fuori dai nostri “orti”. In sintesi, possiamo sostenere che “uscire” non significa disorientarsi, al contrario è un’esperienza che produce cambiamenti necessari per affrontare le complessità del lavoro sociale.

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